La fotografia di Francesca Woodman

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Chi è Francesca Woodman

Francesca guarda il calendario che segna il 19 gennaio, non sapremo mai se a New York splendeva un gelido sole oppure il cielo era scuro, grigio e pesante.
Francesca si era alzata a fatica dal letto e ultimamente le capitava spesso di aprire gli occhi e sentirsi spossata e affaticata, nonostante le ore di sonno sufficientemente dormite. I collant pesanti, il suo vestito di cotone, i capelli lunghi biondi li aveva raccolti in uno spontaneo chignon, gira per il suo appartamento di Manhattan e pensa a questa  giornata, a questo 19 gennaio del 1981. Lo spazio le piace, la casa l’aveva arredata come preferiva, con la sua macchina fotografica, le sue stampe, le poltrone, eppure c’è qualche cosa che la turba: aveva passato un periodo a casa dai suoi genitori, e ora era lì a guardare fuori dalla finestra.

Lo sguardo si perde e la mente si apre ai ricordi.

Francesca Woodman ripensa alla sua famiglia composta di soli artisti; suo padre George è un uomo alto dagli occhi chiari e dolcemente indagatori che di lavoro fa il pittore astratto, la madre Betty, caschetto nero, occhiali rotondi e figura snella vive per la ceramica, vende le sue opere in tutto il mondo e suo fratello minore si sta costruendo una carriera da video-maker.

I Woodmans sono una famiglia di artisti, artisticamente diversi l’uno dall’altra che insieme creano un mix esplosivo di suoni, forme, immagini e installazioni.

Francesca ripensa alle vacanze in Toscana, la casa della famiglia Woodman vicino a Firenze è un casale rimesso tutto a nuovo, con un giardino e una piscina, dove la famiglia passa le vacanze.
Era stato facile per lei decidere di passare un periodo di studio proprio in Italia, siamo nel 1975, a Roma dove frequenta i corsi europei della RISD con l’amica e collega Sloan Rankin. Qui si appassiona alle opere di Max Klinger e conosce, tra gli altri, anche Sabina Mirri, Edith Schloss, Giuseppe Gallo, Enrico Luzzi e Suzanne Santoro. Frequenta anche l’ambiente artistico della Transavanguardia Italiana.

Come le piaceva l’Italia… è nella città di Roma che aveva trovato l’ispirazione per la serie Calendar Fish – una sorta di diario fotografico.

Francesca continua a guardare fuori dalla finestra, sorride per la faccia tosta che aveva dimostrato, non ancora ventenne, davanti a Giuseppe Cassetti proprietario della libreria  Maldoror di Roma, e ricorda la faccia sbalordita di lui quando lei gli aveva detto: “Ciao, mi chiamo Francesca e sono una fotografa”, e infatti questo era Francesca Woodman, una fotografa che nonostante la sua giovanissima età aveva dimostrato passione e determinazione e allora Giuseppe Cassetti le organizza la sua prima personale proprio nella sua antica libreria-galleria, nel 1978; ne seguì un’altra, promossa dall’amico Giuseppe Gallo.

Poi le viene un nodo alla gola, ricorda le foto con il suo compagno Benjamin, ripensa alle sue amiche italiane, ricorda la fatica per affermarsi come fotografa, la fatica per cercare di svincolarsi dalla fama che circondava i suoi famigliari, la determinazione, la devozione per il suo lavoro, il suo volto e il suo corpo.

Il suicidio

Il nodo alla gola non passa, c’è qualche cosa che la turba, che spaventa la sua anima, Francesca si sente in pericolo, ultimamente vive sul filo del rasoio, si sente sempre affranta, come un  bicchiere mezzo vuoto e crepato pronto a rompersi in mille pezzi alla prima vibrazione, le sue fotografie non le bastano, l’amore della sua famiglia non le basta, l’amore del suo compagno non le basta, lei stessa non si basta, la macchina fotografica con lei da quando ha tredici anni le sembra estranea, eppure il giorno dopo avrebbero pubblicato la sua prima collezione di fotografie, dal titolo Some Disordered Interior Geometries (Alcune disordinate geometrie interiori).

Un riconoscimento importante, finalmente Francesca era agli occhi del mondo dell’arte una vera artista, ma il nodo alla gola aumenta la sua stretta, cosi Francesca decide di aprire la finestra, guarda fuori, chiude gli occhi, respira a pieni polmoni e poi …

Poi si getta nel vuoto, compie il gesto più eroico che un essere umano possa fare, Francesca Woodman mette fine alla sua vita a soli ventidue anni, suicida se stessa, la fotografia, i suoi turbamenti e il suo talento.

Emozioni impresse in bianco e nero

Francesca comunica tutto un sentire e soffrire, non usa le parole, non espone mai a voce il suo pensiero, Francesca lo mette su bobina, su carta nei suoi diari e nelle sue fotografie. Non giudicatela per la sua tecnica acerba, ma estremamente comunicativa, provate a sentire con la pancia quello che gridano le sue sue forme sulla carta fotografica.

Corpi nudi dai volti celati, anatomie scomposte, strappi, ombre, figure velate elementi naturali e luoghi abbandonati, nelle sue fotografie stampate in analogico e in bianco e nero  è tutto rarefatto, nascosto e celato, guai svelare il dolore, è vietato ammettere di stare male, proibito soffrire perchè ancora non si è riusciti a capire che cosa vi vuole da se stessi, da questo corpo, da questo mondo, Francesca da quando scatta la sua prima fotografia a soli tredici anni cercherà un unica cosa, Francesca  cercherà proprio Francesca.

 

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“Ho dei parametri e la mia vita a questo punto è paragonabile ai sedimenti di una vecchia tazza da caffè e vorrei piuttosto morire giovane, preservando ciò che è stato fatto, anziché cancellare confusamente tutte queste cose delicate” Francesca Woodman

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La sua produzione si concentrava soprattutto sul suo corpo e su ciò che lo circondava,  corpo e luogo spesso fusi insieme con abilità, l’architettura domestica è la cornice all’interno della quale avvengono le sue esplorazioni sul corpo, sulla sessualità, Francesca afferma se stessa, il suo essere al mondo, il suo esserci e cercarsi nel tentare di darsi una forma, un’ombra, una sagoma una impronta.

Strappi e doppie esposizioni

Le fotografie di Francesca Woodman fanno appello a una moltitudine di contraddizioni: piacere e dolore, sensualità e durezza, trasparenza e solidità, piattezza e multidimensionalità, l’istante e la continuità del momento. Prodotte nell’arco di nove anni, dal 1972 al 1981 tra i 13 e i 22 anni; la fotografia, nelle sue possibilità artistiche e di documentazione, invita a una compenetrazione dello stato psicologico del soggetto fotografato con l’occhio del fotografo. Il fatto che la Woodman fosse spesso sia dietro che davanti l’obiettivo della macchina fotografica dà alle sue fotografie una doppia valenza. Nel corso della sua breve vita ha prodotto un corpus di opere più di 500 negativi, provini e stampe, ciò che indica un acuto e prodigioso senso di se stessa come artista.

Arte concettuale, performance, Body Art, psicologia e malattia tutte fuse all’interno di una unica mente, un unico corpo che brucia e si consuma in soli 22 anni di esistenza.

Ho letto molto su Francesca Woodman, ho letto del suo rapporto conflittuale con la sua famiglia di artisti affermati, del fatto che si sentisse sempre in difetto, ho letto della sua frustrazione nel non riuscire ad affermarsi e della smania che provava nel voler emergere, credo invece che Francesca Woodman abbia messo fine alla sua vita in modo meticolosamente razionale e sincero, credo che la depressione l’abbia sfiancata a tal punto che tanto valeva arrendersi.

Quello che vedo è un giovane dai capelli biondi e lo sguardo deciso che aveva dato tutto umanamente e artisticamente, lontana anni luce dai suoi coetanei, dalla realtà che la circondava e dalla sua stessa famiglia che l’aveva soccorsa dopo il suo primo tentativo di suicidio.

Francesca aveva rincorso la donna che era o che sperava di diventare senza averla mai raggiunta, non riusciva a mettere a fuoco quella che poteva diventare; una madre, una moglie, una insegnate, un artista o una fotografa e questo esercizio orientato al futuro era talmente difficile e faticoso da averla portata alla rassegnazione, all’accettazione una malattia depressiva che in quel 19 gennaio del 1981 le ha fatto aprire la finestra, le ha fatto respirare l’aria della sua città, le ha fatto prendere lo slancio per spiccare il volo e dirci addio.

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